Per ragionare di Giuliano Galletta

Carlo Romano (1985)

Perché la possibilità pervenga all’occasione, abbisogna di un investimento che se é innanzitutto emotivo deve pure saper forzare gli avvenimenti, deve aiutare il caso. Nel campo dell’arte ciò significa seguire a fiuto ciò che altrimenti é regolato dal diritto, il quale -a sua volta – costituisce un accordo a tutela della lealtà che nei rapporti fra l’artista e il mercato manca o, meglio, agisce di riflesso. Nell’arte, cioé, il mercato esiste allo stato brado e alla mancata regolamentazione contribuisce, insieme all’artista, la sua mitologia che é essenzialmente liberista. Nella nostra società e nell’attuale congiuntura, che vede ampia la domanda d’arte tanto nei risvolti ricreativi che in quelli convenzionali, si vengono a configurare stratificazioni tanto palesi quanto poco studiate – fatte salve alcune indicazioni negli studi sul tempo libero e vaghe considerazioni sull’esteticità diffusa che vicendevolmente s’appoggiano. Gli addetti che occupano lo spazio destinato alle vicende artistiche coprono, a ben guardare, una porzione esigua degli accadimenti; nel migliore dei casi trattano la materia come spunto e non si avventurano oltre i limiti che l’insieme dell’attività critica fa ritenere ragionevoli. In poche parole potremmo dire che si parlano addosso. Accade, nell’interazione fra la critica e il mercato, dopo selezioni laboriose e magari violente – talvolta invece effettistiche e retoriche – che l’attenzione si venga a concentrare solo su quei protagonisti cui il mercato consente di assumere un profilo effettivamente professionale (professionalmente retribuito), lasciando abbandonati coloro per cui la battaglia non è arrivata a buon fine, disponibili eventualmente per future rivisitazioni memorialistiche, inopinati accenni d’importanza o più mesti intestardimenti del critico amico. Si ragiona qui sul rango, sulla definizione di alcune classi artistiche. L’ordinamento lo si può sentire vero e insieme carente, impreciso, esageratamente schematico. Se ne può riprendere lo scheletro al fine di allargarne il raggio mediante una gerarchia d’unità spaziali quali regione, nazione, mondo, non senza ricorrere ad adeguati strumenti statistici che possano garantire la buona approssimazione. Chi si avventura in questo tipo di indagine sa in anticipo a qual genere di obiezione si troverà esposto per quanto nell’attività critica ordinaria possa ottenere una benevola accoglienza, più di circostanza che di merito tuttavia. Il suo lavoro risulterà carente nell’estrapolazione dei valori estetici e tutt’al più racimolerà consensi come descrizione più o meno minuziosa di temi che il critico già sente. Non vogliamo ora schierarci a partìgiani di chi circostanzia con una messe di dati la sua ricerca senza valutarne il senso, ed é anzi il critico militante che molto spesso ha ragione di fidarsi dell’intuito. Viceversa, non é riconducendo sparse attitudini – e a stereotipi potremmo eleggere quadri d’un solo colore, intrecci selvaggi di materia pittorica, uso disinvolto di motivi altrui, decorativismi da mobilieri – ad un tema superficialmente adottato (che potrebbe essere il solito crepuscolo dei valori) che quell’intuizione va a cogliere il segno. Premessa lunga, strabordante, magari incongrua, poiché siamo qui a parlare di Giuliano Galletta e solo di lui, della sua attività d’artista. Buona al negativo se non volessimo ricalcare le strade in essa delineate. E, se così fosse, come sfuggire al senso separato che ci disturba nell’uno e nell’altro caso sopra enunciato come ci disturba nell avita? Niente più duna recensione che ancora lascia in sospeso l’interrogativo potrebbe uscirne. Eccola tuttavia: ecco cioé due parole su Giuliano Galletta, giornalista, libraio e, al dunque, artista, se bastassero gli anni infruttuosamente dedicati a tale ipotesi di carriera a meritargliene la qualifica. Senz’altro possiamo dire che ha egli lavorato sulla possibilità come poetica (il corso dell’opera come opera in corso) diradando sempre più l’attività cosicché pigrizia e negligenza si sono consustanziate ai lavori più nuovi tanto da accentuare la naturale inconcludenza degli altri. Un modo alquanto sibillino onde mostrare insieme alla propria sfiducia la consapevolezza che ha del mercato, di quello umano vogliamo dire. A ciò si aggiungano tecniche per lo più sfuggenti e varie scansioni stilistiche e il quadro non potrebbe essere meno incerto. Ha dunque anche lui un fanciullino che internamente l’agita, epperò troppo ne valuta l’insensatezza. Una sua installazione che di recente abbiamo visitato ci aggrediva funebre non perché il drappeggio, che pure era nero, stagliasse rimembranze di allestimenti obitoriali – che forse erano anche nell’idea – o perché la sala, ex manicomio, più non avesse alcuno degli aliti vitali che sebbene in odore di follia vi dovettero spirare (al colmo dell’ambiguo!) e si presentasse prossima alla rovina per quanto non priva dell’eleganza borghese di certa architettura spedaliera del secolo stupido. Il parto non sembrava aver recato dolori, il corso dell’esistenza si profilava effimero come tutte le installazioni da vernissage; alla morte, poi, eccoci al dunque, l’esortazione necrofora suonava con la leggerezza dei senza fede:seppellite in fretta!