Il giorno dopo giorno

Sandro Ricaldone 1986

Esercitare un’arte intellettuale comporta pure il vivere la quotidianità con una tensione che consente una penetrazione soggettivamente, affetttivamente vibrante delle forme le più diverse con cui vengono scritte le storie infinite del giorno-dopo-giorno. Là’ dove esse, allora, possono assumere d’un tratto sia le sembianze d’un paio di occhiali, sia quelle di un tic nervoso se non addirittura d’un tatuaggio, ove l’iconografia scrive segni e simboli tutt’altro che, semplicemente, personali. (Pietro Bellasi)
In uno dei saggi inclusi in “Per una sociologia del romanzo”, Lucien Goldmann nota come, in un’epoca nella quale nessuno avrebbe potuto prefigurare gli svolgimenti delle problematiche letterarie contemporanee, Marx – studiando le trasformazioni prodottesi nella vita sociale in conse¬guenza della nascita e dello sviluppo dell’economia – le poneva sul piano del binomio individuo-oggetto inerte e sottolineava il progressivo trasferimento del coefficiente di realtà, d’autonomia e di attività dal primo al secondo termine. Sul piano della rappresentazione del mondo che si riflette nella creazione artistica questo processo si definisce nei termini di una graduale scomparsa dell’individuo in quanto realtà essenziale e con il costituirsi degli oggetti in “universo autonomo avente una propria strutturazione che sola permette ancora, ma raramente e difficilmente, all’umano di esprimersi”. Nel romanzo (forma cui Galletta esplicitamente si richiama nel sua operare, che va perciò inteso in termini complessivi, di continuità, piuttosto che nel caratterizzarsi dei singoli episodi) al deperimento radicale del “personaggio” si accompagna una prise de pouvoir da parte delle cose; all’azione, divenuta impossibile, si sostituisce un configurarsi trasversale, mediato dagli oggetti nei quali l’elemento soggettivo si trova per cosi’ dire incorporato. Gli oggetti sono “lo sguardo che li vede, il pensiero che li rivede, la passione che li deforma” (Robbe Grillet): a loro volta subiscono, quindi, una metamorfosi ossessiva che nel lavoro di Giuliano Galletta risulta evidente. Non altro senso ha il suo collezionare reperti inutilizzabili estratti dal quotidiano secondo le modalità della citazione anziché nell’ottica usurata dello straniamento, rinforzandone – attraverso uno strato di colore, l’inserimento in un apparato ostensivo o, anche, il rapporto con una frase (una citazione, di nuovo) sintomatica – l’aspetto esemplare. L’autore stesso si reifica, evocandosi ironicamente per il tramite della propria immagine,
rimarcando nella “moltiplicazione della figura” il ruolo di assenza che si
propone di giocare. Un ruolo che, se “cerca di spostare il linguaggio dal posto in cui di trova” (Esterhazy), se può giovarsi di tratti contraddittori e della falsificazione, non concede spazio all’ambiguità, semmai ad una dissimulata componente drammatica: tale l’inscrivere l’opera entro l’ambito delle convenzioni estetiche, la deliberata volontà di farne ornamento nella consapevolezza che “il piacere è una distrazione imperdonabile per chi è costretto a vegliare la propria morte per sentirsi vivo” (Lea Melandri).
* introduzione alla mostra personale Studio Gennai, Pisa 1986