Note alla camera melodrammatica

Sandro Ricaldone

Dans la rue bruyante la catastrophe qui passe.
Giorgio De Chirico

Della “camera melodrammatica” allestita da Filippo De Pisis nel palazzone austero dove riceveva Giorgio e Alberto De Chirico (e, più tardi, Carrà e Soffici) non si conoscono immagini fotografiche. Oggetto di una prosa dell’artista, evocata altrove per accenni, trova la sua raffigurazione più accessibile nei ricordi del fratello Pietro, che la descrive “caratterizzata da una tappezzeria a righe bianche e celesti, alle quali evidentemente si affidava il compito di suggerir l’idea della melodrammaticità”. Un am¬biente, che si direbbe quindi, sobrio, analogamente all’attiguo salotto ove “l’impronta metafisica era invece suggerita da certe palle di vetro lucido, azzurre, verdi e oro appese al soffitto”. L’accumulo d’oggetti – tra il desue¬to, il mirabolante e l’arcano – contrassegna assai più marcatamente, in una mimesi adolescenziale della wunderkammer secentesca, il primo rifugio ricavato nelle soffitte dello stabile abitato con la famiglia, dove “un elastico sfondato, senza lettiera ma guarnito con pezzi di seta vivaci, fungeva da divano; un tavolo coperto di carta da parato era lo scrittoio. Dalle pareti e dal soffitto pendeva un’infinità di oggetti strani, e poco distante c’era la possibilità di attingerne altri non meno inconsueti”. Seguito, di lì a qualche tempo, da un appartamento indipendente al mezzanino, nel quale “finalmente fu creato il ‘museo’. Farfalle, cocci, graffiti, libri antichi e ogni altro ‘pezzo’ vi trovarono degna collocazione”. Anche più tardi, nel soggiorno romano degli anni ’20, De Pisis creerà nella pensione delle sorelle Cipolla, in via Monserrato, la sua “camera incantata”. E nella “stanza rossa”, descritta nel brano del romanzo autobiografico “Il signor Luigi B.” ripreso in catalogo, s’intravede una sintesi degli ambienti approntati dal “marchesino-pittore” come sfondo necessario della propria esperienza immaginativa, in cui ai tratti portanti dell’arte e della poesia, si univano quelli meno noti dell’erudizione classica, dell’araldica, delle scienze naturali e delle religioni d’Oriente. L’eterogeneità e la casualità degl’insiemi trovano risonanze nei collages cubo-dadaisti che segnano le prime prove dell’autore e che in seguito, più convenzionalmente, animeranno le sue nature morte. Non pare tuttavia legato a questo spunto, per quanto suggestivo, l’interesse che ha indotto Giuliano Galletta a fare della “camera melodrammatica” la cifra della sua mostra e del volume-catalogo che l’accompagna.
Senza dubbio vi sono, a monte, anche ragioni di ordine generale e di spessore simbolico da cui l’espressione coniata da De Pisis almeno in parte prescinde e che nondimeno condensa in modo straordinariamente efficace: la camera (tema già affrontato dall’artista genovese nell’installazione “Appunti per la casa pericolosa” del 1990) è l’universo ridotto a proporzioni umane, la scena dell’intimità, è metafora della psiche e della memoria; il melodramma rappresenta l’enfatizzazione della peripezia umana, una mascheratura che ne cela la vacuità. Ad attrarre l’attenzione di Galletta sembrano però esser state, al di là della felicità e delle stratificazioni di senso della formula, due altri aspetti. In primo luogo l’affinità strutturale, se così si può dire, del modello proposto dagli allestimenti privati dell’autore ferrarese (veri e propri ritratti interiori del loro artefice, composti mediante assemblaggi di ephemera e mirabilia costantemente in fieri) con il proprio modus operandi, elaborato a partire dagli anni ’70, l’anti-biografia, basata sulla disseminazione e l’intreccio di elementi frammentari, di citazioni visive e verbali; di oggetti legati a memorie domestiche e d’immagini inquietanti, spie dei turbamenti dell’epoca; di false ammissioni e di depistaggi rivelatori. Sotto un secondo profilo, una (non dichiarata ma avvertibile) sintonia di fondo con la temperie della “Pittura metafisica”. Non sul versante più evidente dell’enigma ma nella scoperta della spersonalizzazione e dell’assurdo. Una contiguità più accentuata di quanto l’impaginazione e il trattamento delle immagini in mostra lascino d’intuire. “Vedere ogni cosa, anche l’uomo, nella sua natura di cosa”, scriveva De Chirico. E ancora: “Il terribile vuoto scoperto non è che la stessa insensata e tranquilla bellezza della materia”. Mentre Galletta annota: “In linea di massima, l’essenziale è mostruoso”, a chiosa di un panorama in cui accosta excerpta beckettiani sulla morte del soggetto ai mistici dolori di Santa Teresa d’Avila; la descrizione di Julia Kristeva dell’orrore ispirato dalla pellicola che si forma sul latte all’inquadratura di un gruppo d’immigrati clandestini soccorsi su una banchina. Ma non solo: come nel manichino dechirichiano si può leggere una trasposizione novecentesca della figura dal volto oscurato della “Melen¬colia” di Dürer, nella foto inespressiva della modella ritratta davanti allo specchio sembra di poter cogliere una reincarnazione del personaggio senza volto che abita le tele del Pictor optimus, mentre il corredo simbolico dell’incisione dureriana (il compasso, la clessidra, la cometa) e le “cose ordinarie” (i biscotti, i pesci, le cornici) dei Metafisici vengono sostituiti da emblemi più espliciti del perturbante: l’ampolla della fleboclisi e la sedia a rotelle (quest’ultima abbinata, nel catalogo, ad una scena di tip-tap). Infine – ma qui entriamo in un terreno decisamente più ampio e articolato – l’immagine della modella allo specchio accenna al tema del doppio, ripreso e sviluppato nell’inquadratura in cui ancora la modella e l’artista siedono l’una a fianco dell’altro su un divano, con la medesima flebo innestata al braccio, a comporre un’ipotetica icona dell’androginia (anche qui, comunque, soccorre una rimembranza della Metafisica, nell’accostamento fra “la Pitonessa” e “L’idolo ermafrodito” di Carrà). Dal fotobildungsroman montato in “Tour jours” (1978) a “La camera melodrammatica”, il lavoro di Giuliano Galletta disegna una spirale in cui alla cadenza autoparodistica insita nello “sbalorditivo bric-a-brac di cascami paraculturali” rilevato da Giuseppe Zuccarino (nel quale rebus, schemi di parole incrociate e altri materiali consimili sembrano protendersi verso una sottile banalizzazione dell’enigma) si sostituisce gradualmente – pur man¬tenendo, rielaborata, la forma del “libro-almanacco” al di là dei generi preconizzato da Dominique Noguez – un registro più grave, che l’appel¬lativo “melodrammatico”, ad un tempo, denuncia e sconfessa. La catastrofe che segnala non è, forse, l’inammissibilità dell’autobiografia ma la resa all’abitudine (“il ceppo che incatena il cane al suo vomito”, scrive Beckett), l’opacizzarsi della memoria. Perché, come afferma ancora Noguez in “Amour noir”, il romanzo in cui descrive la sua passione carnale impos¬sibile per una strip-teaseuse, Laetitia (che potrebbe essere un alter ego di Thèrèse, l’ignota sceneggiatrice, o della suora giovane di cui, nel brano in catalogo, rifulge la nudità della caviglia), “les disparitions sont plus affreuses d’être sans traces”.