Fenomenologia dell’inapparenza
Viana Conti (2009)
Come si stende un indumento sulla corda, ad asciugare, con delle mollette da bucato(1), così Giuliano Galletta, artista, sciorina fotografie e carte, motivi e motivazioni, appende teche e arma biblioteche, estrapola citazioni, intenta sovrapposizioni di canti e suoni, organizzando in mostra l’irriducibile scenario delle incompossibilità. Ma poi, si tratta realmente di una mostra? Comunque, varcando la soglia dello spazio espositivo il visitatore, lo spettatore, entrano in quello che non esiterei a definire un teatro delle simultaneità. Non tanto della crudeltà, come prescrive Artaud, che ricusa una rappresentazione della vita per presentarla in quanto ha di impresentabile, quanto piuttosto delle modalità di sopra-vivere, non cessando di riavvolgerne il filo nella trama intermittente di un racconto, di una storia in perdita, messa in opera attraverso immagini. O di un’iterazione di copie da un originale sempre differito, implacabilmente differente. Entrato in un gioco di rispecchiamenti, l’autoritratto con palloncino, ad esempio, interviene come la citazione di quello in jeans con bandiera rossa del 1980.
Sarebbe forse troppo suggestivo parlare di una tranche de vie tratta da un’ipotetica pagina di diario, il suo, o di uno spettacolo in cui interagiscano situazioni estetico-emozionali di ordine diversificato, quali, ad esempio, un incidente stradale. Entrando in galleria, infatti, si percepisce a destra la megafotografia di una barella ospedaliera su cui è distesa, sotto un lenzuolo insanguinato, che non convince del tutto un osservatore attento, una giovane donna con bracciali al polso, dall’immancabile vestito rosso: è chiaramente leggibile, su di lei – sopra(v)vissuta? richiamata in vita dall’autore? sospesa in un Arrêt de Mort?(2) – la bianca scritta “Je voudrais apprendre à vivre. Enfin(3). A sinistra, ci si confronta con quell’ironico, pensoso, autoritratto fotografico dell’artista seduto accanto a un precario, infantile, palloncino colorato, mentre, in simultanea, sulla parete di fronte, scorre in loop, un video inedito di tre minuti, che duplica l’immagine dello stesso, accompagnandola con il sottofondo sonoro, al pianoforte, di You’re the top! il pezzo jazz di successo, composto nel 1934 da quel brillante autore americano di musical che è stato Cole Porter, soprannominato il grande sofisticato e mito dell’alta borghesia europea anni Trenta. Non è inusuale che il pubblico di Giuliano Galletta, artista visivo, si sorprenda coinvolto in un clima da vaudeville, come già quello dell’irresistibile tip tap di Fred Astaire in La camera melodrammatica, con introduzione di Sandro Ricaldone e Raffaele Perrotta o quello fatale del tango argentino Caminito in A casa Jorn , presentata dagli imprescindibili testi di Simone Regazzoni e ancora di Sandro Ricaldone: segni in levare contrapposti, come nel solfeggio, a quelli in battere, che sortiscono l’effetto pulsionale-intenzionale di innescare una sorta di insinuante euforia. Il segmento del testo di Porter You’re the top!…But if, baby, I’m the bottom you’re the top! viene riportato alto su una parete come esempio di quell’enumerazione caotica che ha il suo referente nella figura letteraria indagata da Leo Spitzer nella poesia moderna e si compone di connotazioni antitetiche, riferite a una coppia in cui l’oggetto del desiderio sarebbe vincente, mentre il soggetto desiderante irrimediabilmente perdente. Seguono, sulla parete, citazioni fedeli da Jorge Luis Borges, citato da Foucault in Le parole e le cose sull’impresa assurda di una classificazione dell’universo e di una delirante tassonomia degli animali, trovata forse in un testo cinese, un’ulteriore citazione da Charles Cros, in quanto poeta e inventore proto surrealista che elenca ninnoli e chincaglieria desueta, rinviante a un certo clima baudelaireiano, da Jacques Derrida(4) sulla pretesa di un vivente di voler imparare a vivere, finalmente, a vivere intrattenendosi con i fantasmi della politica, della memoria, dell’eredità e delle generazioni, forse per esorcizzarli; infedele la citazione dalla Genesi che introduce alla parete dell’Archivio del Caos, un dispiegamento di carte e scritte formato A4, che anticipa un “mosaico” della Gesamtkunstwerk di prossima realizzazione al Museo di Villa Croce. In bacheca, un manichino, capovolto, in tuta arancione da cosmonauta, intanto, ci ricorda, usando le parole di Riccardo Manzotti per la mostra Hotel de l’avenir, che il futuro, storico, sociale, utopico, dei cittadini sovietici degli anni Settanta oggi è un passato, diventato anteriore al loro presente, uscito dal quadrante delle lancette.
Da non sottovalutare, nella visione d’insieme della mostra, la cartolina d’invito con l’opera Cow Artist:, dove, sulla scena dell’esponibilità e del feticismo della merce e con fondale gli Spettri di Marx, si affaccia quell’inopportuno cestello di lavatrice, abbandonato su un prato inglese, in cui una vigorosa mucca di Higher Fraddon, ormai star alla ribalta della cronaca massmediatica digitale, ha infilato incautamente la testa, restandovi tragicamente intrappolata. Anche questa è un’ironica metafora della critica radicale dell’autore verso la società dello spettacolo, dell’industria culturale, dei consumi e dei rifiuti in una società globale.
Se, di fronte a un tale scenario, qualcuno degli astanti dovesse ripensare mentalmente a quella sorta d’indefinibile teatro dadaista che, nel 1952 al Black Mountain College, John Cage, declamante su una scala in un angolo, e Merce Cunningham, danzante tutt’intorno inseguito da un cane, realizzano, in mezzo al pubblico, facendo eseguire pitture bianche al giovane Rauschenberg, altresì impegnato nel mettere vecchi dischi su un fonografo, giusto mentre David Tudor versa acqua da un secchio all’altro, dopo aver impeccabilmente suonato su un pianoforte preparato…ebbene sappia che Giuliano Galletta, pur non prescindendo da quella ineludibile pagina di storia – operando sul collage, sull’innesto di immagine e performance, su un’idea di continuità che non muove da uno stretto rapporto di relazione, ma piuttosto da un cut up alla Burroughs e su una percezione di se stesso come identità inafferrabile, spazio-tempo del suo divenire, – non può che divergerne per puntuali zone di tracce differenziali, rinvianti indefinitamente ad altro, che lo connotano come indubbio autore occidentale, senza inflessioni Zen. Giuliano Galletta lavora sul punto di sutura tra situazionismo e decostruzionismo, approdando a un esito estetico-letterario-teatrale di cui è originale iniziatore in campo artistico dalla seconda metà degli anni Settanta, pur non cessando di operare una mise en abyme dell’individuazione dell’autore, anticipando, in qualche modo, anche l’intenzione odierna del copyleft sul copyright. Maestro del montaggio e dello smontaggio, Galletta mette in cortocircuito la vecchia impalcatura narrativa e i generi visivo-poetico-letterari, inaugurando, sul versante dell’arte, una sua tipologia di collage che non cessa di scombinare e scambiare l’ordine del sistema dei segni attuali e virtuali. Giornalista anomalo, decostruttore di romanzi, lirico parodista della cronaca, poeta dell’immagine diaristica, scenografo dell’incongruo, filosofo del relitto, antropologo dell’aforisma, stenografo del tempo, trascrittore di un’epica dell’erotismo, cacciatore inesausto di fantasmi, Galletta, con finta tecnica poliziesca e al fianco di maestri del sospetto come Marx e Freud, fa parlare gli indizi, lo spazio figurale dell’Unheimlich, filma se stesso dando voce all’altro, delinea una sua fenomenologia delle inapparenze. Il campo semantico che l’artista ritaglia per includervi la sua mostra è un vuoto in cui organizza il caos evenemenziale di frammenti giustapposti della sua storia, portati sulla scena dai flash intermittenti della memoria. Che accade in mostra? Una sequenza di non accadimenti, la re-citazione di una visione, un metascenario, un film di spezzoni di déjà vu e jamais vu, la dimensione performativa della decostruzione della scrittura, la ricetta per apprendere, infine, a vivere? Creato un contesto di realtà spettrale, lo scrittore assembla oggetti per trovare un bordo a tale contesto, per abbordare testi orlando immagini e cose, mostrando reticoli di tracce, parole che straripano nella vita, nella deriva dello spettacolo.
Nel perpetuarsi di un autoritratto dalla biografia irrintracciabile, si profila un personaggio che nell’istante dell’appello dice io, occupando il posto della voce narrante e autonominandosi Giuliano Galletta, altrimenti detto un soggetto che afferma che la vita vive, che riafferma anzi un supplemento di vita sulla vita, sopra il vivere, nel sopra(v)vivere.
Viana Conti
note:
(1) Jacques Derrida, Sopra-vivere, Feltrinelli editore, Milano, 1982, pag.14, trad. Giovanni Cacciavillani.
(2) Maurice Blanchot, L’Arrêt de Mort, 1948, racconto che Jacques Derrida rilegge analiticamente attraverso la pratica della sua “doppia invaginazione”, e che pubblica nel 1982 con Feltrinelli, intitolandolo Sopra-vivere.
(3) Jacques Derrida, Spettri di Marx, Cortina editore, Milano, 1994, trad. di Gaetano Chiurazzi.
(4) Jacques Derrida, Spettri di Marx, Cortina editore, Milano, 1994, trad. di Gaetano Chiurazzi.