You ‘re the top
Laura Santini
È un discorso già cominciato la mostra You’re the top, di Giuliano Galletta a cura di Viana Conti, alla galleria UnimediaModern ancora fino al 30 marzo. Una wunderkammer di artificialia e memorabilia, una metanarrazione su una serie di lavori (due di grande formato e un video inedito, più un collage di opere della serie Archivio del Caos e una bacheca) che il giornalista/artista ci propone a partire da una canzone di Cole Porter, You’re the top la stessa che dà il titolo alla mostra: tracce d’esistenza raccolte come enigmi a più risposte, sollecitazioni destinate a moltiplicare il senso a seconda della prospettiva storica/antropologica/sociale da cui le si guarda; una continua espansione di significato che muove dalla ricerca intorno ai concetti dell’identità e della morte, o a quelli di autore e arte (in ogni sua forma: visiva, cinematografica, teatrale, pittorica, scultorea, performativa), e che naviga attraverso il tema del doppio e la strategia della parodia – doppio stilistico – lungo una fitta serie di citazioni letterarie, filosofiche, artistiche.
Una collazione filologica – come in un confronto fra copie di manoscritti – dove diverse opere siano inedite o storiche (tra cui alcuni lavori della fine degli anni ’70), a se stanti o parti di un tutto più ampio, come potenziali manoscritti originati dalla stessa matrice innescano un fitto discorso autoriflessivo ma anche in grado di potenziale espansione, un ipertesto che traccia fili diretti tra le parti, ma interrompe anche percorsi intraprendendone altri all’interno della poetica ossessiva dell’enumerazione caotica, da un saggio di Leo Spitzer, a cui l’artista si riallaccia idealmente proseguendo il progetto originale del Photobuildung Roman. Un esprimersi a quadri, frammenti, angoli della memoria, impercettibili movimenti, mostrando il la meraviglia prodotta da tutto ciò che è marginale. Perché la domanda centrale resta quella beckettiana Cosa importa chi parla? E dove si colloca chi parla?.
Ogni lavoro è segno all’interno di un codice, di un linguaggio, ma anche simbolo di un concetto più articolato che punta alla dimensione connotativa e vuole già indicare un altro referente; si riconosce così da parte dell’artista un intento di collaborazione ma anche di dispersione che interrompe la conversazione aperta da ogni cornice, teca, immagine, ritaglio, attorno a un’identità che chiede di essere continuamente ricomposta e per questo diventa emblema del dialogo stesso.
Mi torna in mente il sociologo Erving Goffman che, per presentare l’io nella quotidianità (The Presentation of the Self in Everyday Life, 1956), scelse di utilizzare la prospettiva di una performance teatrale e quindi fondare le sue osservazioni su principi drammaturgici. Secondo Goffman quotidianamente mettiamo in scena noi stessi e le nostre performance in risposta agli altri che ci si parano davanti, con l’intenzione di definire al meglio l’azione stessa e quindi la nostra identità. E nonostante la frammentazione a cui siamo sottoposti dal moltiplicarsi degli sguardi delle sollecitazioni dei ruoli in qualche modo alla fine reggiamo proprio per via della cornice, che fissa malgrado tutto (proprio come il riquadro video, della teca, dell’immagine) dei confini alla percezione in cui una particolare attività si svolge. Ma l’idea di Galletta è che anche la cornice subisca una manomissione per via dei mezzi utilizzati nel costruire ciò che è osservato in modo che influenzi l’osservatore.
Laura Santini
Mentelocale 19 marzo 2009