Il gioco dell’identità
Matteo Fochessati (2004)
A proposito della condizione eccentrica e marginale tipica del panorama artistico ligure, di cui si parlava la settimana scorsa, essa fu tanto connaturata a tale ambiente, nel corso del novecento, da rappresentare un fertile terreno di accoglienza per alcuni tra i più noti déracinés della cultura internazionale, si pensi solo al Dino Campana affascinato dalla eleganza di piazza Corvetto o a Ezra Pound, rifugiatosi a Rapallo dopo la drammatica segregazione sotto la tenda pisana. E tuttavia questa tensione a escludersi e comunque a differenziarsi dal contesto di ricerca corrente non è stata solo una prerogativa della cultura artistica del primo scorcio del Novecento, ma ha continuato a caratterizzare, come in una sorta di ereditarietà genetica regionale, anche le esperienze più recenti, tutte emblematicamente connotate da una propensione all’understatement che senza dubbio rappresenta un carattere tipico del ligure. E non a caso di understatement estetico si è parlato a proposito di Giuliano Galletta, artista visuale che, proprio per una congenita tendenza alla “dissipazione” del proprio operare, caratterizzato dall’attraversamento non codificato dei territori dell’arte e da un’estrema parsimonia dei propri strumenti espressivi, si inserisce a pieno titolo in questo peculiare filone di ricerca, attorno al quale si sono intrecciate alcune delle principali esperienze del contesto ligure. E proprio in tale prospettiva la vicenda artistica di Giuliano Galletta – che alcuni giorni fa ha presentato a Villa Croce il suo ultimo lavoro, il volume-romanzo visivo Almanacco di un altro anno, realizzato secondo le modalità e gli schemi editoriali del manifesto dell’Antilibro – si è intersecato nella sua multidisciplinarietà linguistica con un vitale milieu culturale, ricettivo nel cogliere le più avanzate ricerche del momento, dalle elaborazioni estetiche del concettuale alle estemporanee azioni di matrice situazionista. Galletta ha comunque perseguito un percorso autonomo, nel quale la poesia, la fotografia, l’installazione hanno rappresentato solamente alcune delle componenti formali di un discorso più complesso e problematico, in grado tuttavia di esprimersi attraverso un segno minimo e non invasivo. L’arguta affabulazione che caratterizza la sua ricerca, anche quando questa si manifesta nelle forme dell’installazione – una modalità operativa scandita anche in questo caso con parsimoniosa costanza nel corso degli anni – è d’altronde connaturata allo stesso ambito professionale di Galletta, giornalista e autore per un lungo periodo di una fortunata rubrica, il cui principale merito era l’essenzialità di un commento capace di focalizzare quotidianamente in poche righe i principali fatti del momento. Questa ultima opera letteraria-visuale rappresenta quindi un ulteriore metafora di una sua introspezione esistenziale, da cui emergono i lacerti di una memoria personale ma che, attraverso i feticci culturali e estetici di un’epoca, è in grado di proporsi anche come esperienza collettiva e condivisibile, seguendo i ritmi del suggestivo gioco di scambio e cancellazione di identità proposto dall’artista stesso.
* “la Repubblica”, 2006