no comment
Sandro Ricaldone (1990)
Di fronte all’ingresso un divano imponente, drappeggiato di stoffa nera, al centro d’un ambiente buio. Alla parete è sospesa, obliqua, un’antica stampa. Sparsi sull’impiantito – aperti, in meditato disordine – due o tre libri. Per un andito si accede ad una stanza ostruita da una moltitudine fredda di sedie pieghevoli, mezzo velate da riquadri di tela bianca con grandi macchie rosse di vernice. Di qui una porta immette in un vano dove un albero di natale sovraccarico di decorazioni s’affianca ad un tavolino basso coperto da una tovaglia dorata che sorregge una tazza vuota, reperto di un’implausibile cerimonia del té.
Una sequenza puramente incongrua, che si astiene tuttavia dal far leva sull’insensatezza (e sull’irrilevanza) degli accostamenti per sbalordire, creando una deriva abbreviata e traumatica, e si limita invece a segnalare uno stato di pericolo (“La casa pericolosa / è quella dove ho vissuto”, scriveva anni fa’ l’autore) o d’insofferenza, registrando pagine del testo dissonante d’un io (“quello stupido pronome”) barthesianamente moltiplicato e, insieme, abbozzando un catalogo beckettiano di “cose insopportabili”, che ci mantengono legati al mondo cui ineriscono e del quale osiamo sperare di non esser parte.
Nessuna apologia degli oggetti, quindi, della loro resistenza fenomenica al dissolvimento nel flusso di coscienza; nessuna anceschiana presa di partito per una “poesia in re”. E nemmeno un’effettiva hantise de abolir, bensì una constatazione (non certo impassibile) degli “effetti devastanti” che la realtà, o ciò che ne resta, continua ad esercitare “sullo spirito e sul corpo umano”.
In questo scenario, in qualche modo costruito a posteriori, “non è l’essenziale che manca, ma essenziale è la mancanza” (Virilio). Più che una “estetica della sparizione” (sparizione, beninteso, del soggetto) vi si manifesta però, nel continuo sovrapporsi del registro ironico al patetico, un’impossibilità a trovar luogo (“Sono / soltanto / qui”. “Non sono / neppure / qui”. – recitano due frammenti antitetici della raccolta pubblicata da Galletta in concomitanza con questa rassegna) nello spazio fra unten e oben, tra fattualità ed immaginazione, nella fictio realistica del diario. Uno spiazzamento che, se non determina alcuna difficoltà nell’agire quotidiano (nè tanto meno nostalgie edeniche), non rinuncia alla sua dignità sintomatica di “tensione oscura” fra terrore e meraviglia, né si fa scrupolo di stabilire cortocircuiti beffardi fra l’estremismo kitsch ed il satori infantile che può ricavarsi da un Christmas tree esibito in primavera inoltrata, o fra la sanguinolenta parvenza della vernice e le sofisticate screziature del sangue.